domenica 18 settembre 2011

"La scoperta di un autore: Mikio Naruse" di Fabrizio Grosoli - Tratto da 'Cineforum', Ottobre 1983

NOTA BENE: L'articolo di seguito riportato è stato pubblicato in occasione di una retrospettiva su Naruse Mikio tenutasi in occasione del Festival di Locarno nel 1983.


"Già da qualche anno il Festival di Locarno trova nella retrospettiva uno dei suoi momenti di attrazione più preziosi. La formula monografica ha consentito di riportare all'attenzione autori classici la cui sensibilità si incrocia puntualmente con quella dello spettatore contemporaneo. Così è stato per Ozu (poi trasformato — anche via Wenders — in punto fermo per il cinéphile degli anni'80) o per Powell e Pressburger. Ma, mentre in questi casi la rivalutazione di un'intera opera era, come si suol dire, «nell'aria» (accompagnata tra l'altro da studi e «omaggi» un po' dovunque, in particolare nell'area anglossassone), per la retrospettiva '83, dedicata al giapponese Mikio Naruse, si può parlare di scoperta assoluta, almeno per lo spettatore occidentale. Fino ad ora su Naruse — nato nel 1905 e morto nel '69 — erano noti in occidente soltanto alcuni giudizi «storici» moderatamente elogiativi come quelli di Sadoul e Anderson-Richie e, in tempi più recenti, alcune analisi più accurate (Burch, Mellen, Bock, Tessier) [NOTA Cfr. rispettivamente il «Dizionario dei Cineasti» e la «Storia del cinema mondiale» di Sadoul; «Il cinema giapponese» di Anderson e Richie, Feltrinelli, 1961 (nuova edizione inglese, «The Japanese Film: Art and Industry», Princeton University Press, 1982); «To the Distant Observer: Form and Meaning in the Japanese Cinema» di Noel Burch, University of California Press,1979 (edizione francese, Gallimard 1982); «The Wavesat Genji's Door: Japan through its Cinema» di Joan Mellen, Pantheon Books, New York, 1976, «Japanese Film Directors» di Audie Bock, Kodansha, Tokyo-NewYork, 1978, «Images du cinema japonais» di Max Tes-sier, Ed. Veyrier, Paris, 1981.] che, — insieme ad alcune testimonianze giapponesi (tra cui quelle di Kurosawa e Oshima) — cominciavano a propagare l'immagine suggestiva del «quarto grande» [NOTA: Dopo Mizoguchi, Ozu, Kurosawa, s'intende; ma quanti «grandi» ci restano da scoprire dentro l'inesauribile miniera del cinema giapponese, da Gosho a Ito, da Uchida a Toyoda, da Kinoshita a Kinugasa?]. La conoscenza diretta della sua opera in Europa è sempre stata praticamente inesistente, se si escludono rarissime eccezioni [NOTA: La distribuzione in Francia di Okasan, 1952, il premio assegnato proprio a Locarno a Midareru, 1964.] in Italia, per lo meno a quanto ci risulta, silenzio assoluto.
Di fronte a una tale carenza di tradizioni critiche, diventa legittima una prima questione sull'opportunità e la giustificazione della personale locarnese. «Merita» il dimenticato Naruse una riconsiderazione generale del suo cinema? Ci troviamo di fronte a un grande cineasta, a un vero «autore», con una poetica e uno stile personali? La risposta, fin da ora, non può essere che affermativa, senza riserve. Al di là di confronti e graduatorie sempre opinabili e ingenerose [NOTA: Alle quali sembra votarsi invece Audie Bock autrice del catalogo di Locarno — che peraltro risulta documentatissimo e quindi fondamentale, non foss'altro che per la preziosa filmografia completa e commentata — la quale insiste sulla contrapposizione Naruse-Ozu, ovviamente a favore del suo autore, attraverso vetuste argomentazione tematico-ideologiche.], Naruse è effettivamente autore in un'accezione piena, tradizionale, perfino desueta. La sua opera è marcata, attraverso 40 anni di cinema, da un'assoluta, quasi ossessiva continuità di temi che va ben oltre la artigianale specializzazione in un genere definito — lo shomin-geki come vedremo — e che si riassume nella figura di donne dolorosamente affrancate da ambienti arcaici o da relazioni inaridite. E nello stesso tempo è segnata anche da uno stile autenticamente personale: trattenuto,antispettacolare, fatto di dettagliate osservazioni su comportamenti quotidiani e privo di vistose evoluzioni narrative, che non fa che affinarsi e radicalizzarsi col procedere degli anni.

Nonostante questo, Naruse resta un cineasta profondamente radicato nel sistema industriale tradizionale del cinema giapponese. La sua formazione è tipica di gran parte dei registi dell'epoca. Ingresso nel cinema negli anni '20 con l'umile ruolo di «trovarobe», scalata di tutta la gerarchia del set, fino all'esordio alla regia nel 1930. Poi un lungo periodo di routine, caratterizzato da film muti (il passaggio al sonoro avverrà solo nel '35), di breve durata e di generi spesso non confacenti alla sua personalità come le commedie, definite all'epoca burlesque o non-sense. Infine il riconoscimento — faticosamente conquistato — di autore e il passaggio alle dipendenze di una delle case di produzione «storiche» del Giappone, la P.C.L., che poi diventerà Toho.

Alla Toho vigeva un rigido sistema di divisione dei ruoli dominato dal produttore (un producer-system di modello hollywoodiano, insomma), ma ciò non impedì a Naruse (che resterà sostanzialmente fedele alla compagnia — nonostante il tentativo nel dopoguerra di fondare una casa indipendente — fino all'ultimo film girato nel 1967) di guadagnarsi col tempo una maggiore libertà d'azione, quella riservata ai grandi registi di successo.Una libertà che nel suo caso poteva comportare un controllo diretto di tutte le fasi essenziali della lavorazione.
Di una filmografia sterminata (ben 87 film), la rassegna di Locarno ha offerto una selezione — che dobbiamo ritenere rappresentativa — composta da una decina di film degli anni '30 e da altrettanti del periodo che va dal 1951 al 1964, in copie sottotitolate in inglese provenienti dagli archivi giapponesi. Non sono stati inclusi, dunque, gli anni della cosiddetta crisi involutiva di Naruse, cioè tutto il periodo bellico e il dopoguerra, caratterizzati peraltro dalle pesanti censure governative, dalle conseguenti imposizioni agli studi di soggetti militareschi o edificanti (Naruse tornerà a girare commedie e perfino film in costume) e successivamente dalle agitazioni sociali che per qualche tempo bloccarono la Toho.
L'impressione di continuità ed omogeneitàdel corpus narusiano risulta da questa scelta ovviamente rafforzata, ma non c'è dubbio che a Locarno si siano viste soltanto opere che l'autore stesso — sempre umile ed esigentissimo nei propri confronti — giudicava degne di una memoria futura.


La tragedia del quotidiano
«Non posso impedirmi di amare il modo patetico in cui gli uomini conducono la loro vita in mezzo allo spazio infinito».  Fumiko Hayashi
In quasi tutti i film della retrospettiva dunque, la storia — si potrebbe dire — «è sempre la stessa». Una giovane donna rifiuta di accettare il destino di subalternità e di grigiore che le impongono il proprio ambiente, borghese o proletario che sia, e soprattutto la meschinità e la grettezza degli uomini che la circondano. La conclusione è inevitabile: la donna è condannata alla solitudine, una condizione accolta con sofferenza, ma anche con dignità e forza interiore.
Già da una descrizione così sommaria è possibile comprendere innanzitutto l'originalità e la radicalità, per la cultura orientale, del discorso di Naruse, anche rispetto agli altri grandi registi «di donne» come gli stessi Mizoguchi e Ozu, e poi l'impossibilità di racchiudere la sua figura entro lo schema dell'artigiano esecutore di un solo genere. Lo shomin-geki — secondo Anderson e Richie — è il film sulla gente comune e soprattutto sulla piccola borghesia, un genere che a seconda della personalità degli autori si orienta poi verso la commedia (Gosho) o verso il melodramma (Naruse).
In realtà nel cinema di Naruse solo la cornice essenziale dello shomin-geki, l'ambientazione di fondo, viene rigorosamente seguita, quasi con un'interiorizzazione «naturale» delle sue potenzialità drammatiche, mentre il racconto si realizza poi in cadenze del tutto personali che esprimono una singolare poetica del quotidiano e della tragica superiorità del sentire femminile.

In un contesto di norma contemporaneo (che tuttavia comincierà a contenere brucianti riferimenti alle conseguenze dell'attuale, la tragedia della guerra, solo nelle grandi operedegli anni '50), gli ambienti rappresentati variano dal proletariato vero e proprio (Hataraku ikka / Tutta la famiglia lavora 1939, Okasan / La madre 1952), al mondo rurale (Ani imoto / Fratello maggiore, sorella minore 1953, Iwashigumo / Nubi d'estate 1958), alla piccola borghesia urbana, commerciante o impiegatizia (tra gli altri, Meshi / Il pasto1951, Inazuma / Il lampo 1952, Yama no oto / Il suono della montagna 1954, Ukigumo / Nubi fluttuanti 1955, Midareru / Tormenti 1964), e comprendono soprattutto la vita e i luoghi delle donne emarginate o escluse da ogni comunità sociale «rispettabile»: cantanti, cameriere-«entraîneuses» e,più di ogni altra, geishe, le donne «indipendenti», sole e sfruttate per eccellenza (da Otome-gokoro sannin shimai / Tre sorelle dal cuore puro 1935, a Bangiku / Crisantemi tardivi 1954, da Nagareru / Nella corrente 1956, a Onna ga kaidan o noboru toki / Quando una donna sale le scale 1960).

Naruse — anch'egli di origine piccolo-borghese — descrive questi ambienti con l'attenzione e la familiarità che gli derivano da un'antica frequentazione personale e fa dei luoghi pubblici e privati corrispondenti (i negozi, i bar equivoci, i quartieri delle geishe, le case popolari del Shitamachi di Tokyo, tutte proiettate verso l'esterno e senza barriere al loro interno) il centro emblematico del suo mondo poetico desolato. Luoghi in cui vige un sistema di vita apparentementee forzatamente comunitario (con la strada, i vicini, i familiari, i clienti), ma dove la comunicazione resta formale o interessata, dove l'espressione di sentimenti intensi rischia direstare esclusa o in breve logorata.
Le storie, i drammi interiori che prendono forma in questi spazi, solo raramente però assumono i toni del melodramma. Mancano in Naruse alcune delle «regole» fondamentali del genere: il manifestarsi all'eccesso di affetti e di azioni dettate dalla passione, il costruirsi intorno a grandi eventi drammatici, per colpi di scena e improvvise «agnizioni», la presenza di happy-end o di finali tragiciche comunque risolvono definitivamente il turbamento di un iniziale equilibrio.
La «filosofia» espressa nei suoi film è — in senso del tutto opposto — che la tragedia risiede senza speranza di risoluzione nel quotidiano stesso, nell'accumularsi di incomprensioni, di insensibilità all'amore, di gretti interessi egoistici, di cui di nuovo sono vittime soprattutto le donne; alla fine nella coscienza dell'impossibilità di stabilire un'armonia duratura in un mondo sempre più travolto dalle «necessità materiali». Tutto questo è espresso con un'assoluta economia di gesti e dialoghi: i personaggi femminili comprendono le miserie da cui sono circondati unicamente tramite dettagli (sguardi, frasi in apparenza anonime, sottili variazioni di comportamento) appena percepibili e non enfatizzati dall'occhio di Naruse, così come l'evento potenzialmente più drammatico — l'abbandono del proprio ambiente (di un uomo, una casa, un figlio che deve nascere) — si produce in modo asettico, perfino brutale a volte (l'illusione delle emozioni è già trascorsa), assolutamente antieroico, attraverso il compimento di pochi gesti essenziali [NOTA: Può costituire un'eccezione a questo procedimento — tra i grandi film degli anni '50 — lo straordinario «melo» Ukigumo, storia dell'amour-fou di una donna per un uomo indegno che la condurrà fino alla morte. Ma anche qui Naruse si occupa soprattutto a rappresentare ellitticamente le premesse e gli effetti delle passionie delle non-coincidenze amorose più che la loro esplosione; fino allo splendido finale dove la morte della protagonista viene continuamente evocata — nella rassegnazione e nell'estenuazione che si è impadronita dei due amanti finalmente ricongiunti — ma non ripresa al momento del suo sopraggiungere.].
Il «linguaggio» impiegato è del resto perfettamente adeguato alla materia della rappresentazione. È assente qualsiasi «artificio» di regia troppo evidente: montaggio rapido, raccordi a effetto, movimenti di macchina sottolineati e «autonomi» rispetto ai personaggi [NOTA: Tranne che nelle primissime opere degli anni '30 cherisentono chiaramente delle Avanguardie europee e inparticolare di Rene Clair.], per far posto a una messa in scena completamente concentrata sull'oggetto delle riprese — quindi esseri umani a confronto in un décor delimitato — e costruita su inquadrature ad altezza d'uomo, leggeri movimenti a seguire gli attori, predominanza di campi medi e primi piani — ma senza un gioco di differenze scalari troppo sensibili all'interno della stessa sequenza — montaggio fluido, in continuità, senza tempi morti o campivuoti (come in Ozu). Un sistema formale impostato di nuovo sul senso della quotidianità e del suo scorrere uniforme, in cui la mimica di un volto assume più valore o cela più violenza di un dialogo concitato o di un'azione serrata.
Da un punto di vista «drammaturgico», l'elemento forse più significativo di questo sistema è la rinuncia programmatica allo happy-ending e più radicalmente a qualsiasi finale che rappresenti un'effettiva risoluzione degli avvenimenti narrati. I film di Naruse si concludono quindi in modo assolutamente «aperto», senza che intervengano eventi decisivi, solitamente con un dialogo o un gesto in cui semplicemente viene ribadita l'impossibilità di un'ulteriore progressione dei fatti e insieme constatata la necessità di continuare a vivere dopo aver raggiunto fieramente la superiore consapevolezza dell'inevitabilità della sofferenza e della solitudine.
Con tutto questo non sarebbe corretto affermare che il racconto di Naruse rappresenti una sorta di superficie monotona e senza increspature. Al contrario in ogni film si producono tra i personaggi tensioni profonde che a volte possono esplodere apertamente con violenza (come nel conflitto tra fratello e sorella in Ani imoto) e che sono comunque espressione di un grande dramma storico intimamente sentito dall'autore: il crollo progressivo dei valori istituzionali dell'antico Giappone e in primo luogo della famiglia. Ma una volta prodottasi l'inevitabile lacerazione definitiva — legata o meno a un trauma violento — il ritmo si ricompone nella lenta, amara esplorazione di una nuova condizione che non può che essere «negativa» —però vissuta in un contesto culturale ostile o impreparato — e appunto senza evoluzioni possibili.
Il «femminismo» di Naruse si manifesta così in termini molto meno esteriori di quanto potrebbe apparire. La donna dei suoi film non è «ribelle» o «indipendente» per natura.La condanna alla solitudine che subisce, deriva più profondamente da una sensibilità ingigantita dalla proterva meschinità degli uomini, dalla sua esigenza insopprimibile di rapporti autentici e assoluti, dall'essere comunque più vicina degli altri al senso tragico della vita e dal saperne accettare malinconicamente le conseguenze. Il modello femminile che emerge è reso dal complesso e ambiguo intreccio tra un'energia interiore e un'autodeterminazione a volte perfino scandalosa per la cultura orientale e una quieta, affettuosa dolcezza (questa sì profondamente nipponica) prodigata agli altri con stoica disponibilità al di là di ogni delusione e fallimento. Un ritratto mediato anche dal mondo poetico letterario di autori contemporanei come Kawabata e soprattutto come la scrittrice Fumiko Hayashi (di cui Naruse adattò molti romanzi e alla fine — in Horoki / Cronaca del mio vagabondaggio, 1962 — perfino la biografia) e splendidamente realizzato da un gruppo di attrici «fedeli», tra le quali spicca la grande Hideko Takamine, perfetta e intelligente incarnazione di questa somma di fragilità e determinazione, dedizione e orgoglio, che sta al centro della poetica di Naruse.


Costanti di stile
A queste prime considerazioni, molto generali, dovrebbero seguire, crediamo, analisi più dettagliate dei singoli film o per lo meno valutazioni non episodiche sull'evoluzione del linguaggio di Naruse dagli anni '30 alla «maturità» del dopoguerra; ma ci pare ovvio che le personali circostanze, «effimere», di visione non consentano un approccio «scientifico» di questa natura.
Eppure restano nella mente dettagli, sequenze, costanti di stile che certamente potrebbero rendere più complesso e meno omogeneo lo sguardo d'insieme gettato fino ad ora: pensiamo alla freschezza «avanguardistica» dei primi film muti, con quei rapidi movimenti in avanti della m.d.p. a cercare il volto dei protagonisti; alla durezza del ritratto di «donna perduta» dal carattere singolarmente energico in Yogoto no yume, con un finale terribile e indimenticabile in cui la protagonista maledice la «debolezza» del marito suicida; alla raffinatezza del rapporto immagine-suono già nel primo sonoro, Otome-gokoro sannin shimai; alla sobrietà stilistica di Tsuma yo bara no yo ni / Donna, che tu sia similea una rosa 1935, nel descrivere il conflitto tra ambiente proletario e borghese, quest'ultimo visualizzato, con una satira inattesa, dalla figura di una donna di casa-poetessa; e poi tutti gli anni '50, con le terribili conseguenze della guerra alle spalle — il trauma di Hiroshima e di una generazione distrutta, il crollo dell'Impero e dei suoi valori, sostituiti dai non-valori occidentali — che vengono filtrate da Naruse in un modo di raccontare più aspro e insieme ancora meno «gridato»; questo non tanto in film come il famoso, ma bozzettistico Okasan, quanto in autentici capolavori sulla disgregazione della famiglia come Meshi, Inazuma, Yama no oto (il più vicino a Ozu) o lo stesso, sublime, Ukigumo. L'ovvia speranza è che queste analisi diventino possibili al momento di una presentazione italiana (da parte di un'istituzione pubblica benemerita, magari) della personale di Naruse (che sarà disponibile a partire dalla fine dell'84 dopo una lunga tournée americana); ma è una speranza andata troppe volte frustrata in analoghe occasioni per ritenerla di facile attuazione.

È tutto il cinema giapponese del resto, che attende da troppi anni (dai successi degli anni '50, forse) il superamento di un interdetto non solo commerciale che lo affligge nel nostro paese. Dati i tempi, non resta che augurarci che i recenti trionfi internazionali, insieme ad alcune coraggiose iniziative (la serie Ozu sulla Rete 3, le monografie orientali di Pesaro ecc.), riescano a trasformare in «moda culturale» la conoscenza dei molti, grandi autori e in genere dell'inesauribile patrimonio espressivo offerto al cinema da questa civiltà. "

di Fabrizio Grosoli, articolo pubblicato su 'Cineforum', Anno 23 - numero 10, Ottobre 1983.

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